Io resto a casa

“Grazie alla casa il soggetto esce dal flusso caotico della vita, prende le distanze dalle urgenze e dai pericoli e si concede un tempo e uno spazio per sé“. (S. Petrosino)

Abitare una casa è un fatto così normale che raramente ci fermiamo a considerarlo nel suo  significato  più profondo per il nostro “essere”.

A pensarci bene, la casa   è la nostra prima esperienza di confine,  protetti come siamo da  uno  “spazio” ben definito, in cui trascorriamo una buona fetta del nostro “tempo”.

A differenza degli inglesi   che amano differenziare la home (luogo affettivo)  dalla house (luogo da abitare) per noi italiani  la casa è un “unicum”: uno spazio che  ci accoglie e ci protegge,  che ci contiene e ci manifesta.

La  amiamo e la odiamo nello stesso tempo, sospesi come siamo tra voglia di protezione e  desiderio di libertà.

Infatti se è vero che non c’è casa che non sia chiusa tra quattro pareti, è altrettanto vero che non c’è casa senza porte e finestre.

Nel  transitare dal fuori al dentro, dal  luogo della socialità e delle relazioni allo  spazio protetto,  ritroviamo il senso dell’abitare.

Non è forse vero che ci si “sente finalmente a casa”  quando, dismesso il  “vestito sociale” della sfrenata competitività   e della quotidiana lotta  per la sopravvivenza,  possiamo finalmente abbassare le difese,  toglierci la maschera e tornare ad essere solamente noi stessi?

Quale altro senso  potrebbe avere   l’“abitare”, se non  prendersi  cura di sé  e degli altri che  ci vivono accanto?

Purtroppo la casa, impareggiabile rifugio  del corpo e dell’anima, in questo perduto  tempo,  ha  dovuto acquisire nuove connotazioni, dettate da  norme, oneri e prescrizioni  finora sconosciuti.

Oggi definiamo questo  tempo inedito come  un “tempo sospeso”,  due parole che normalmente sarebbero inconciliabili tra loro  e che sono lì ad indicare una terribile anomalia perché  giammai il tempo  può esistere  al di fuori del suo  lento evolversi.

La sana percezione dello scorrere del tempo è stata messa a dura prova dalla pandemia, che ci ha rinchiusi nelle nostre case, facendoci vivere  giorni  di rassegnata ed apatica ripetitività, in cui sembra non ci sia più spazio per  l’inatteso.

Abbiamo  vissuto un tempo che ha smarrito tutti i nostri riferimenti consolidati e che si è dimostrato incapace di trovarne di nuovi, pieno di riempitivi di corto respiro, ma vuoto di progettualità, ripiegato su di sé, cieco e sordo di fronte a tutto, alimentato dalla paura e dall’angoscia.

Abbiamo provato a dare un senso a questi  giorni, perchè non andassero   persi nell’oblio.

Abbiamo provato a farlo rinchiusi nell’ unico microcosmo disponibile: la casa, che si è trasformata in sorta di città in quattro pareti, in cui  hanno dovuto trovare collocazione  un ufficio, una scuola,  una palestra, un bar, una tavola calda, un negozio, un salone di bellezza e tanto altro ancora.

La convivenza forzata, dopo aver   sconvolto  e mandato in frantumi  i ritmi della quotidianità,  ha sovvertito l’agire dell’intero nucleo familiare, in cui si è reso urgente un riassestamento generale e il  reinventarsi un nuovo modo di vivere.

Anche lo stare   insieme,  sempre a stretto contatto,  ha generato ulteriore  disorientamento e vulnerabilità,  ansia,  malessere e irritabilità, spesso fuori controllo.

Tutti siamo stati messi a dura prova  in questo anomalo  circuito che ha  svuotato le nostre esistenze.  E’ stato necessario  ricorrere a soluzioni alternative per  non lasciarsi travolgere  dagli eventi. Leggere,  fare bricolage,  cucinare,  provare esperimenti botanici sul terrazzo di casa, suonare e cantare dai balconi,  fare  ginnastica on-line e persino sui tetti delle case sono state tante  buone idee per non perdersi nella palude dell’isolamento.

Anche la  tecnologia ha fatto la sua parte.

La lontananza dagli affetti e dagli amici, dai compagni di classe, dai colleghi  ha rimesso al centro delle nostre vite la rete Internet, i social e la  TV,  quel “mondo a distanza”- tanto biasimato da noi adulti in tempi normali-  ed ora  apprezzato come  momento di condivisione virtuale , di ricerca  di informazioni preziose,  di contatto sociale  in tutta sicurezza. Dopo averla tanto condannata, per fortuna, ora la riscopriamo come alleata insostituibile  ed affidabile.

Cosa resterà di questa esperienza anomala è difficile dirlo oggi che non è ancora finita. Sono qui  al computer a scrivere, come sempre da oltre un anno, mentre siamo ritornati  ancora una volta in zona rossa.

Essere a casa, al riparo dal pericolo/contagio,  avvolta e coccolata da quel senso di intimità e di calore umano sprigionato dal mio rifugio familiare, rappresenta in questo momento la mia coperta di Linus. E’ lei che mi sostiene dai pensieri cattivi, quelli che sopraggiungono quando la mente indugia sulle tragedie  dell’ultimo anno, sul distanziamento che non mi consente di sfiorare l’altro-da-me e sulla tristezza che mi provocano le mancanze, ma con la certezza che fino a che avrò  memoria nulla mi potrà essere tolto davvero.

“Un antico proverbio indiano dice che ognuno di noi è una casa con quattro stanze: una fisica, una mentale, una emotiva e una spirituale. La maggior parte di noi tende a vivere in una stanza gran parte del tempo. Ma finché non andremo in ogni stanza, ogni giorno, anche solo per arieggiarla, noi non saremo persone complete.”( Rumer Godden)

Il tempo  lento della pandemia mi sta insegnando  ad  entrare, in punta di piedi , in tutte le stanze, per  provare a respirare la vita che le anima,  a sentirle finalmente parte di me e a  smettere di guardarle per comparti separati.

Ciò che siamo è  sempre e solo interazione, empatia  ed unione.

Siamo una cosa sola con noi stessi e con tutto ciò che ci circonda.

E nessuno si salva da solo.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *