Caselli, rotaie e vite

 

Mi capita sempre più spesso di andare a caccia di  ricordi. Il passato torna prepotentemente a galla. Basta un niente, anche un segnale stradale  che incrocio ad un bivio, mentre viaggio in auto in una domenica qualsiasi per raggiungere la meta ambita.

 

Osservo finestre murate, occhi bui che guardano per non vedere il vuoto che c’è  intorno; il  giardino incolto e lo spandersi dei rampicanti sulla facciata, ratifica di una assenza di qualsiasi premurosa umana cura,  mi restituiscono l’abbandono di questi alloggi, ormai desolatamente soli, quando lo sguardo inciampa su di essi. Del casellante non c’è più traccia. Ora ci  fermiamo in attesa davanti ad una sbarra bianca che, al tintinnare di una campanella, si abbassa autonomamente, mentre sale la nostra insofferenza di automobilisti, perché il treno ha le sue regole e ci metterà un po’ ad arrivare, passerà veloce davanti ai nostri occhi e si  perderà fugace nella prospettiva di un binario infinito. C’è ancora bisogno di qualche minuto di pazienza, prima che la sbarra si rialzi verso il cielo, quella  stessa che fino a qualche tempo fa era azionata dalla mano dell’uomo. Quella pausa sulla strada sbarrata, che crea insofferenza perchè ci sembra esageratamente lunga, inutile e seccante,  riesce a recuperare  tracce di memoria,come un post-it sa  fare per un importante appuntamento da non dimenticare. Carpinone e Cantalupo per tanti  restano solo  indicazioni per non perdersi in questi sconosciuti paesini del Molise.  Per me, questi sono i luoghi in cui hanno vissuto i miei genitori intorno agli anni ’50. Qui non sono mai stata prima di oggi, ma ritrovo la familiarità dei nomi nei racconti di vita familiare,  seduti intorno al camino o ancora a tavola, nel dopo-pranzo, quando  la frettolosa modernità non  aveva ancora sopraffatto le regole stabilite dagli adulti. Purtroppo, nell’ascolto, tanti dettagli sono andati persi, altrettanti  accantonati perché ritenuti, a torto,  poco importanti da me ragazzina, che vivevo il presente ed ero proiettata nel  futuro. Il passato mi appariva minuzia, sembrava   non appartenermi, perché io nei loro racconti non c’ero ancora.

Oggi  mi ritrovo a questo appuntamento quasi impreparata. Cerco di riaprire   i cassetti della memoria per ritrovarvi  frammenti di narrazioni da ricomporre.  Faccio due conti: nel 1945, il 15 di novembre, mamma e papà celebrano il matrimonio; ad agosto del 1946 nasce  Ada, la mia prima sorella e a marzo del 1948  Giovanna, la seconda, entrambe  a Fragneto Monforte. Successivamente (ma la data mi sfugge!) la famiglia si trasferisce prima  a Carpinone, poi a  Cantalupo e va ad abitare in un casello ferroviario. Dal finestrino dell’auto lo sguardo si fa più attento, cerco la strada ferrata, che corre parallela alla strada e, soprattutto, cerco caselli.

Ne ritrovo due;  saranno questi?  Anche se non lo fossero, sarebbe lo stesso: i caselli ferroviari si assomigliano tutti come gocce d’acqua. Provo ad immaginare la vita della mia famiglia  tra queste mura. Distante dal centro del paese, che allora contava oltre 2000 abitanti, a 623 metri di altitudine, mio padre ferroviere sulla linea Isernia-Carpinone, lasciava a casa moglie e due figlie piccole, di giorno  sempre e –talvolta- anche di notte, quando c’erano emergenze da risolvere sulla tratta di sua competenza, come  spalare la neve dai binari durante i lunghi inverni molisani. Ricordo le parole intrise di paura  nei racconti di mia madre, donna giovane e minuta, poco più che ventenne,  quando veniva lasciata sola in una casa isolata, senza alcuna possibilità di comunicare con alcuno. Altro che telefoni, a volte neanche  la luce elettrica -se c’era- funzionava per le precarie condizioni metereologiche! Superare le difficoltà della vita era prerogativa di tutti in quel paese sperduto, dove già allora l’emigrazione sottraeva risorse di forza-lavoro  ad una popolazione già povera di suo.

Ogni tanto la famiglia faceva ritorno a casa, dai nonni a Ponte, paese di origine di mia madre e questo era l’unico conforto che l’aiutava ad andare avanti. Dopo qualche tempo la famiglia si trasferì nella vicina Cantalupo, ma poco cambiò. I caselli ferroviari erano tutti dislocati lontani dal centro abitato e, dunque, bisognava spostarsi a piedi per ogni esigenza. Dal 1948 almeno fino al  1952, questi luoghi hanno visto crescere le mie sorelle: mio fratello Antonio nacque nel 1952, per questo ipotizzo che fosse questo l’anno dell’avvenuto trasferimento definitivo a Ponte. Quattro anni di vita familiare dura e solitaria, in un ambiente sconosciuto, non sono facili da trascorrere. Si tratta di storie faticose e tempranti che lasciano tracce e segni indelebili in chi le vive. Quei segni che, ripensandoci oggi, avevano scavato solchi di solitudine sul  viso di mia madre e che io,  mentre tentava di spiegarmi quegli anni,  non riuscivo a vedere. Ma oggi so che il sacrificio è un tesoro che si svela solo alle persone care e che è l’altro ingrediente inevitabile della vita, insieme all’amore per la famiglia.

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