Fischiettare è una possibilità, dopo la voce ed il canto, che in pochi oggigiorno sanno apprezzare ed utilizzare. E’ un’azione che non tutti riescono a fare, perchè richiede esercizio ed allenamento, eppure viene ridotta a semplice nota di colore -allegra e spensierata- che ben si addice a chi ha del tempo da perdere. Da sempre appannaggio quasi esclusivo del sesso maschile, il fischiettar è visto come un passatempo, associato ad altra azione che è riconosciuta come più importante.
Eppure, un tempo non era così.
Una volta era facilissimo imbattersi in gente che fischiettava gaiamente “quel motivetto che ci piace tanto”, accomunando canzonette e romanze, opere liriche e nenie e tanto altro. Quando ero piccola ed il festival di Sanremo era televisivamente in bianco e nero, i motivi ascoltati la sera prima cominciavano ad essere fischiettati da tutti già il giorno dopo, perché era facile ricordarne a orecchio i ritornelli.
Erano gli anni in cui al fischiettare si attribuiva un brioso segnale di fiducia democratico-proletaria nel “sol dell’avvenire”. Oggi non è più così e se qualcuno accenna timidamente un fischiettio in presenza di altri, suscita immediata ilarità e visibile sconcerto.
C’è chi pensa che sia colpa della crisi che ci attanaglia e ci sottrae la spensierata gaiezza del presente e, ancor di più, la speranza del futuro.
Se è così, è un’atmosfera tristemente e dannatamente reale, che mi inquieta.
Sarà per questo che incrocio sempre più volti imperscrutabili, adombrati, preoccupati, cupi, accigliati e senza alcuna voglia di incontrare il prossimo?
Da qualche anno, nemmeno gli auguri ricevo più a voce. Il travolgente comunitarismo virtuale dei social impone la condivisione di frasi senz’anima, pescate in rete, precostituite e già pronte all’uso, che “fanno dei giri immensi e poi ritornano”, come canta Venditti.
E mentre ascolto fischiettare mio marito -roba dei tempi in cui Berta filava-, quando apre il portone di casa per segnalarmi- senza che io sobbalzi per lo spavento- il suo arrivo, mi torna alla mente l’identico fischiettare di suo padre e di mio padre e penso di essere ancora fortunata a rivivere quella sensazione, oramai merce rara, che spandeva nell’aria ottimismo con ritornelli, magari stonati, che erano veri inni alla gioia di vivere ed alla speranza.
Stiamo attraversando il tempo della tristezza, della minore perfezione, della mancanza di leggerezza e dell’ assenza di dialogo gioioso.
E’ come se stessimo correndo attraversando paesaggi di una bellezza mozzafiato schermandoci con occhiali scuri ed auricolari per non percepire l’armonia che ci gira intorno.
L’ottimismo è il fischiettare dell’anima: non serve a nulla, ma mette di buonumore.
Il pessimismo è, di certo, più vero e probabile.
Ma, per l’umanità, il primo è l’antidoto del secondo.