Serbo negli occhi e nel cuore le immagini del mio paese colpito al cuore, sventrato dalla furia degli elementi, dopo che una pioggia violenta ed incessante aveva interrotto più volte il mio riposo notturno.
Ho capito che doveva essere successo qualcosa di molto grave, quando, in auto verso il lavoro, la vista mi ha restituito uno spettacolo di fango, pietre e detriti in ogni dove, lasciandomi senza respiro e col cuore a mille. Una sofferenza lacerante, mista ad impotenza, continuava a crescere dentro di me, mentre il piede frenava la spinta sull’ acceleratore, costringendomi a rallentare e a vagare con lo sguardo incredulo sul paesaggio intorno. L’apocalisse si era materializzata ed aveva assunto le sembianze di una catastrofe, a testimoniare la fragilità umana, quando le forze della natura decidono di riprendersi il comando e ristabilire quelle regole di equilibrio disattese e dimenticate dal genere umano.
E mentre provavo ad immaginare quello che era successo, cercavo vanamente risposte nei volti delle persone schermate dal parabrezza dell’auto, che riflettevano la mia stessa incredulità.
E così…lacrime hanno cominciato a rigarmi il volto, mentre osservavo quei luoghi violati, che da sempre mi appartengono.
Mi sono ritrovata, ferma su un cavalcavia, ad osservare una natura disfatta e sconvolta negli elementi di cui si compone.
Ho capito immediatamente che non c’era il tempo per chiedersi perchè, ma solo quello per agire: risvegliare la “dormiente” fierezza e tenacia del popolo sannita -e dunque anche mia- che doveva scendere in campo in una battaglia che avrebbe fatto uso di armi non convenzionali. Per ridare dignità e speranza a chi aveva perso, in una notte, il suo passato e non riusciva più ad immaginare un futuro, oscurato dall’ apocalittico presente.
Dovevamo venirne fuori insieme, pur se a fatica, che sarebbe stata -ancora una volta- tanta. E sarebbe servito anche il mio contributo, io più fortunata di altri perché non avevo subìto danni. Si chiama solidarietà, che altro non è se non azione disinteressata. Che risveglia il piacere di dare a chi è nella sofferenza. Pensavo: “Quando l’emergenza finirà, mi auguro presto, resterà dentro di me l’emozione del “dare” che è capacità di aprire le braccia per accogliere e lenire ferite. La cicatrice – indelebile nella mente- testimonierà per sempre la capacità di slanci tesi a capire ciò che conta davvero e a cogliere il senso della vita.
Riconoscere la sofferenza che è nell’altro-da-noi mi renderà migliore, se sarò capace di portare conforto e ridisegnare speranze. Ne sono certa e, dunque, nel mio piccolo, lo farò”.