Cosa ti raccontano quelle case così particolari che incontri quando attraversi contrade, borghi e paesini del Sud?
Sembrano appoggiate lì da una mano che non ha conosciuto il bello, tanto da sembrare fuori luogo, come tessere che non s’incastreranno mai nel mosaico di quei paesaggi mozzafiato.
Le guardi meravigliato e, con un po’ d’ironia, ti convinci che chi ha intrapreso quell’opera non ha saputo farsi bene i conti in tasca.
Sono gli scheletri delle case incompiute. Immobili e monotone. Due, tre, quattro piani ed uno solo finito ed abitato.
Gli altri sono in perenne attesa che succeda qualcosa.
I pilastri dell’ultimo piano, con i tondini di ferro arrugginito rivolti al cielo ed un tricolore sdrucito e scolorito dal tempo, testimoniano la fine-corsa dei lavori in un tempo che fu.
Quelle case ti supplicano di andare oltre il sarcasmo dei tuoi pensieri reconditi e ti invitano a guardarle con gli occhi dell’anima.
Troverai, in quelle poche pareti intonacate, grovigli di storie familiari, di figli da far studiare e sistemare, di sacrifici e di risparmi, di sudore e di amore, di maledizione e di speranza.
Capolavori di bruttura, esaltazione di ferite mai sanate, segno di sogni infranti, ma mai perduti davvero… di vedere tornare i figli dopo l’università fuori sede, trovare il lavoro, farsi una famiglia e poter completare-finalmente!- quei piani sospesi, ma anche che i figli possano farlo da lì dove sono rimasti, per non recidere una volta per tutte legami di appartenenza che sono lì dalla notte dei tempi.
E’ una triste speranza che travolge chi è rimasto al piano terra, fatta di assenze, di omissioni, di incuria, di speculazioni, che lascia le terre orfane e i figli senza più radici.
Racconto amaro e accorato di un Sud, maledetto da chi lo abita perché costretto a fuggire via, amato da chi è fuggito perché non può tornare. Una maledizione chiamata esodo, partenza ed attesa senza mai un ritorno.