Assonanze olfattive

22° giorno di lockdown: sulla rete impazzano tutorial  che spiegano come fare il pane in casa. Quasi quasi ci provo. Ne scelgo uno, quello che fa partire il lievito-madre solo da acqua e farina. Naturalmente non funziona e, dopo dieci giorni di attesa buttati alle ortiche, ricomincio daccapo con un’altra proposta. Questa volta funziona con l’aggiunta di quella nota marca di yoghurt con 4 miliardi di probiotico bifidus. Divento una produttrice casalinga di  lievito-madre, non sapendo che mi attendono sorprese.

Orgoglio da chef alle stelle, ma la gioia dura davvero poco.  La soddisfazione cede immediatamente il posto  allo sconforto. Ci vuole un impegno assiduo, anche se   ho come   prezioso alleato un tempo smisurato.

Ogni due giorni, cioè il  lasso di tempo che intercorre tra una rinfrescata e l’altra,  mi ritrovo con  una quantità considerevole, direi proprio esagerata, di pasta. Sembra quasi che viaggi, in termini di riproduzione, proprio come il covid 19! Mentre raddoppio il numero dei contenitori, affronto il dilemma su come consumare l’eccedenza.  Non se ne parla proprio di eliminarne una parte, come consigliano tutti  i tutorial. E che si butta via la “grazia di Dio”? Non sia mai. Col pensiero rivolto a chi non ha cibo necessario, mi ritrovo  a pasticciare in cucina un giorno sì ed uno no.

Si parte con la ricetta della pizza, anzi no con tante ricette di pizza: impasto tradizionale,  alla Bonci,  quello napoletano alla Sorbillo, a prova di Bimby, croccante, pugliese….. l’importante è il tempo di lievitazione, 8/12/24/36 ore, all’aria o in frigo, con risultati talvolta più che  accettabili, altre volte  addirittura eccellenti.

Sono pronta a passare alla panificazione, dopo un lungo allenamento. Anche qui tante modalità: impasto a mano, nel  Bimby, nella planetaria! E’ sempre un successo. Non si esce più per andare a comprare il pane fresco di giornata, né la pizza per il sabato sera. Da questo momento in poi, e per tutta la quarantena, il pane e la pizza  si fanno in casa.

 

Ed anche le brioches dolci e salate per spuntini vari, a qualsiasi ora del giorno e della notte, che allontanino la depressione dello stare in casa.

 

Devo ammettere che l’esperienza olfattiva,  generosamente offerta da tutto ciò che è appena sfornato,  scatena sempre  un caleidoscopio di esperienze  visive e sonore difficili da  descrivere.

Dicono che la memoria olfattiva sia la più potente di tutte le altre. La sua elevata potenza evocativa   ci consente in un attimo di tuffarci in storie di un passato, anche remoto, ma non è autosufficiente e, dunque, necessita di tutte le altre.

Lascio, dunque, che i  profumi mai sopiti riaffiorino spontaneamente dai ricordi piacevoli che li hanno generati.

Mi ritrovo nella cucina della casa dei nonni. E’ qui che si svolge il rito della panificazione settimanale o, tutt’al più,  quindicinale se le “scanate” non possono essere consumate nei tempi previsti per le avverse condizioni meteorologiche che annullano il lavoro nei campi o i ricchi ristori  per gli operai “a giornata”.

Nonna  Maria Grazia ha chiamato a raccolta le  sue nipoti, che poi sono le mie due sorelle più grandi, le quali hanno dormito qui,  mentre io e mia madre siamo arrivate a piedi di buon mattino. Ada e Giovanna vagano come automi dagli occhi  sognacchiosi perchè svegliate alle 5 di mattina dalla nonna già in piedi prima di loro per organizzare il lavoro.

 Il criscito,  ben consapevole del suo ruolo di attore protagonista della panificazione, fa bella mostra di se’ sul tavolo di legno.  Sotto la crosticina dura, secca e più scura nasconde una massa biancastra, molliccia e gonfia.  Sopravvive alla precedente panificazione ed è molto probabile che abbia fatto il giro del vicinato, riducendosi in quantità per le necessità  di altre famiglie.  

Le operazioni si svolgono tra la  cucina e l’unica stanza  adiacente, adibita a dispensa. Qui, poggiata su due solidi sgabelli a tre piedi,   la fazzatora  di legno, come  un lare domestico, dà l’idea della sacralità del rito.

Questo contenitore, che fa pensare ad una culla, è  ricolmo di farina,  necessaria per almeno 6/7 scanate, sistemata a mo’ di  vulcano e pronta ad ospitare il lievito a cui è stata tolta la crosticina superficiale.

Con la brocca  la nonna versa un po’ di acqua  tiepida. Le mani esperte di mia madre cominciano ad impastare, con  lenta maestria per non fare grumi. Con un lavorìo certosino, si continua selezionando la farina un po’ alla volta,  quella che  riesce ad essere contenuta  nelle mani disposte a mo’ di  semicerchio,  perchè possa assorbire la quantità d’acqua  versata. Si continua così fino a quando tutta la  farina avrà assorbito l’acqua  in modo da  formare un  impasto sufficientemente morbido ed elastico.

 E’ a questo punto che, nella stanza immersa  nel silenzio del mattino,  entrano in gioco le giovani ed allenate mani delle mie sorelle che,  con i pugni chiusi,  facendo leva sulle articolazioni del dorso delle mani, con un’alternanza di movimenti repentini, “ammassano” il pane, lo piegano in due, lo battono, lo manipolano, lo comprimono, lo bagnano se si asciuga troppo. Il  ritmo è simile a quello dei passi che fanno “cic ciac” quando  calpestano un tappeto di foglie morte di un bosco in autunno dopo una pioggia abbondante. E’ un lavoro impegnativo perché il  segnale che dichiara concluso il lavoro arriva  solo dopo circa  un’ora.  Finalmente le “impastatrici umane” possono riposare e può “riposare” anche la pasta,  coperta da una tovaglia  e da  alcune coperte, in modo da accelerare la lievitazione.

Dopo un paio d’ore, si passa alla preparazione delle scanate, avendo l’accortezza di tenere da parte una buona quantità di impasto che si userà come criscito la volta successiva.   Con la rasolicchia, già usata  per pulire la fazzatora, la pasta  viene tagliata in tante porzioni che, una volta ridotte in forma di pagnotta, vengono adagiate nelle canestrelle   su un panno ruvido e candido. Una generosa manciata di farina e giù a coprirle con i  quattro lembi del panno che fuoriescono. Mentre tutti  aspettano l’ultima lievitazione, inganno il tempo giocando con i piccoli rimasugli di  pasta rimasta incollata alla fazzatora.   Invento semplici  pupazzetti  schiacciati da cuocere nel forno dando sfogo alla mia  fantasia.

Le altre donne sono intente all’accensione del forno, che ora  scoppietta allegramente,  bruciando tutto il suo contenuto di legna secca, procurato dal nonno la sera prima,  perchè non produca fumo, ma solo  fiamma limpida.

 Le fascine  rimangono ai piedi del forno, pronte ad entrare in azione all’occorrenza, una per volta,  su punti  in cui  la legna  non arriva a bruciare, per far sì che il forno si scaldi uniformemente.

La nonna tira la brace prodotta  verso la bocca del forno con l’attizzatoio, ammucchiandola  ai due lati. Ha il fazzoletto in testa legato con un nodo sulla nuca a protezione dei capelli e lo sguardo concentrato verso il cielo del forno per capire se è diventato bianco. Quando  lancia una manciata di farina e annuisce con la testa è il  segnale che si può infornare. Comincia a togliere la cenere con il  munnolo, una scopa  monouso molto rudimentale, che è poi una  lunga mazza  alla  cui estremità sono  legati ramoscelli di foglie verdi.

Con maestria, di mani in mani, le canestrelle, una alla volta, vengono capovolte su di una pala di legno appoggiata, per l’estremità più larga sulla bocca del  forno e per l’altra sul dorso di una sedia.  Ogni pagnotta, con un abile e repentino  scatto di chi manovra la pala, trova il suo posto nel forno, che viene chiuso al termine con un coperchio di ferro che si regge su piedini  ricurvi.

Bisogna attendere, ma anche vigilare affinchè il pane non bruci. La nonna lo fa  ogni  quarto d’ora, osservando attraverso una bocca più piccola, che si trova alla sinistra di quella più grande. Mentre guarda, decide se è il caso di rimuovere quei pani che hanno bisogno di essere spostati  perché poco o molto cotti.  Nel frattempo, noi ci divertiamo a stendere la pasta per la pizza nella teglia, aiutandoci con la farina che prendiamo da un sacco già aperto.

E’ una sensazione bellissima, affondare le mani in questa coltre bianca e soffice, vellutata al tatto, che lascia alzare una sorta di nebbiolina e va a depositarsi dapprima sulle braccia lasciate  scoperte dalle maniche arrotolate dei vestiti e poi sui grembiuli , che scoloriscono d’un tratto. E’ un gesto naturale provare a scrollarsi di dosso questa polvere senza però riuscirci del tutto. Proviamo a ripulirci  scuotendo la farina, ma non  c’è verso. Svolazza nell’aria e dopo un po’ ritorna su di noi sotto forma di patina.

Intanto  il pane è cotto, viene sfornato con la pala e, nel tragitto forno-fazzatora, dove resterà fino alla consumazione coperto da teli bianchi,  emana un profumo unico  che si spande per tutta la casa. Si deve compiere l’ultimo atto della giornata,  per noi il più atteso: le cottura delle pizze al pomodoro che rappresentano l’unica pietanza di questa giornata. Il forno,  nel disperdere l’ultimo calore,  ci regala un ulteriore saggio di bontà e suggella  con un marchio  di gusto prelibato  sapori ed odori indimenticabili.

 

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