La frase del noto sociologo e psichiatra Paolo Crepet “L’influencer è un imbecille, che avendo pochi neuroni li spalma, come si fa con la marmellata” è certamente provocatoria, ma che magnificamente definisce questo personaggio che “lavora” sulle odierne piattaforme digitali e che inquieta le coscienze di noi cosiddetti“boomer”, nati in un’Italia democraticamente giovane e formatisi nel boom economico, dove l’impegno ed il sacrificio personale rappresentavano l’unico trampolino di lancio per auto-affermarsi nella società. Oggi siamo qui a chiederci perché l’ influencer sia una professione tanto richiesta ed ambita da giovani e meno giovani.
Bisogna innanzitutto riconoscere che le piattaforme sociali nascono come servizi informativi on-line che, mediante la Rete, consentono agli utenti di condividere contenuti testuali, immagini, video, audio e di interagire tra loro. I social network come FB, Twitter, X, Instagram e tanti altri hanno dato a tutti libertà di parola e di pensiero, facendo illudere i fruitori che il digitale aperto e condiviso potesse costruire una società perfetta, sempre più giusta, libera e democratica.
L’uso sempre più diffuso dello smartphone, che permette interazioni attraverso i “like”, ha consentito ai creatori/proprietari dei social di utilizzare le informazioni raccolte non solo e non tanto per personalizzare la comunicazione, intesa come visibilità e misurabilità, in ragione di follwer, like e condivisioni, ma, soprattutto, per estendere e rafforzare il loro marketing, grazie alla figura dell’influencer, strumento oramai divenuto indispensabile perché utile alle aziende.
Influencer, chi é costui?
Un utente dei social che si è costruito una sua reputazione per aver maturato un particolare tipo di esperienza, che pubblica regolarmente sui social per creare tendenze ed acquisire una grossa quantità di follower.
Chi può diventare influencer?
In pratica, tutti i frequentatori dei social ed in ogni campo. Basta possedere specifiche attitudini come amare le apparenze, cavalcare l’intrattenimento leggero, avere una buona capacità comunicativa, saper captare, interpretare e soddisfare, con voce alternativa, tutti i desideri e le aspirazioni del pubblico-social, quelli considerati più vicini alla loro esperienza quotidiana e il successo è garantito
Il successo degli influencer è meritato?
Se tutto si riduce a marketing digitale, il cui compenso elevato è il risultato naturale del mercato, si può esserlo!
E che valore oggi viene attribuito al merito?
Ciascun giudizio su questo fenomeno non può che dipendere dai valori e dalle prospettive personali, ancorché dalla comprensione delle dinamiche sociali ed economiche in gioco. Abbiamo detto che la democratizzazione dei media digitali ha permesso a persone di qualsiasi background di guadagnare visibilità e successo al di fuori dei tradizionali percorsi istituzionali.
Tuttavia la percezione che qualcuno possa guadagnare grandi somme senza “merito” genera ancora risentimento o disillusione per quanti si impegnano nello studio con grandi sacrifici personali e familiari, soprattutto nel contesto attuale, dove crescono in maniera esponenziale le disuguaglianze economiche.
Come si fa a non riconoscere che il successo finanziario degli influencer non sia proporzionato al valore reale del loro contributo sociale o culturale e che ci troviamo di fronte ad una cultura basata solamente sul consumo e sulla superficialità?
La capacità di intrattenere, l’abilità nel comunicare, la creatività o l’attrattiva personale, che di per sé non sono prive di valore, non possono rientrare nella categoria del merito che, tradizionalmente, è sempre stato associato a competenze specifiche, formazione accademica, esperienza lavorativa o contributi significativi alla società.
Ma risposte semplici ad domande complesse non ne abbiamo e tutte le posizioni sono accolte e rispettabili, come quella del noto sociologo Umberto Galimberti, il quale coglie spesso l’occasione per ribadire quanto oggi sia più complicato “essere” che “apparire” all’interno di una società in cui l’uomo stesso si è degradato al livello di merce e perciò si può esistere solo mettendosi in mostra, pubblicizzando la propria immagine, non riuscendo a distinguere più ciò che è giusto da ciò che non lo è, in cui la confusione predomina incontrastata ed in assenza di valori che svolgano una funzione-guida-regolatrice.
E’ ancor più innegabile che oggi siamo alle prese con un mondo che pretende di plasmare ogni soggetto a suo piacimento, trasformandolo e facendolo diventare diverso da ciò che è realmente. L’influenza che subiamo è così forte ed incontrollabile che inconsapevolmente ci comportiamo non come vorremmo, ma come la società ritiene più corretto ed opportuno, sottostando a delle rigide regole che presuppongono l’approvazione degli altri per poterci sentire bene con noi stessi, mostrando un’immagine o meglio una maschera che, giorno dopo giorno, si finisce con l’indossare, dimenticando chi si è realmente.
Gli influencer curano meticolosamente immagine e narrazione personale, dunque rappresentano uno stile di vita aspirazionale come elementi determinanti della loro identità da restituire in rete ai propri seguaci. L’attenzione è tutta spostata sul “mondo desiderante del web”, su queste persone ammalianti, che sanno modellare gusti, opinioni e valori dei follower, introducendo sempre nuove tendenze ed enfatizzando il desiderio di emulazione, fino a diffondere inediti ideali culturali, per accrescere senso di appartenenza e fidelizzazione alla comunità virtuale.
In realtà, con l’uso dei like abbiamo consegnato mappe e profili comportamentali dettagliati ai social, dando inizio all’era della sfera immateriale, dove i dati non sono più proprietà di chi li emette ma di chi li sfrutta e costruisce un innovativo castello di stimoli e tentazioni che vogliono non soltanto trasformarci in un prodotto (se una cosa è gratis vuol dire che il prodotto sei tu!) e farci diventare inconsapevoli consumatori senza confini, ma avviarci verso una graduale erogazione del libero arbitrio.
E questo aspetto ti piace poco e ci inquieta molto.
<Il potere furbo, dall’aspetto liberale, benevolo che invoglia e seduce, è più efficace del potere che ordina, minaccia e prescrive. L’opzione-like è il suo segno: mentre si consuma e si comunica, ci si sottomette al rapporto di dominio. Il neoliberismo è il capitalismo del mi-piace.> (S. Zuboff –Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri-Luiss University Press, Roma 2019)