“Desideriamo a tal punto la felicità dei nostri figli che smettiamo di chiederci qual è la vita che realmente vivono e quali sono le vere aspirazioni, finendo per schiacciarli sotto il peso delle nostre buone intenzioni”.
E’ quanto scrive il filosofo e sociologo francese Marcel Gauchet nel suo saggio Il figlio del desiderio. Una rivoluzione antropologica, come presa d’atto delle attese, traboccanti di investimenti emotivi, che abbiamo riversato sull’esperienza dell’infanzia.
E’ notizia recente il calo considerevole delle nascite e che un bambino su tre nasce al di fuori del matrimonio. Visti i dati, non è affatto paradossale affermare che “ non è più la famiglia che fa il bambino ma il bambino che fa la famiglia”, dal momento che è lui –il figlio del desiderio– l’attore protagonista di una rappresentazione ben studiata a tavolino, sul quale investiamo aspettative fuor di misura. Questo bambino-progetto deve poter abbagliare nella sua splendente individualità e, soprattutto, deve imparare subito a fronteggiare un immaginario sociale che lo ha eletto- a sua insaputa- a propria utopia, come ultima speranza nel veder realizzato un mondo migliore.
Questa età che, a fatica, è stata strappata alla non-considerazione nella quale era stata confinata per secoli come età indistinta da cui doveva emergere l’adulto, oggi sembra vieppiù in pericolo, per essere stata rinchiusa nell’ individualistica prigione dorata che gli adulti le hanno costruito intorno. In nome del rispetto della specificità e dell’unicità dei bambini oramai non solo ne pratichiamo il culto, ma li costringiamo a rimbalzare -come palline da tennis- da un campo all’altro di un grigio universo, del quale percepiscono di non possedere le chiavi.
Le strade dell’individualismo e della preparazione sociale al futuro sono percorsi che altri hanno scelto, nella certezza che questo significhi “il meglio per loro” e poco importa se il processo avviene in totale autoreferenzialità e in nome dell’affermazione del singolo a tutti i costi. Sembra quasi che alla famiglia odierna, in qualsiasi forma venga vissuta, non sia più richiesto di garantire legami solidi e solidali. Quella che una volta era considerata la cellula primordiale della società tende a proteggere i suoi membri a tal punto che riesce ad interagire con l’esterno solo esercitando la funzione della delega. Sono la società e la scuola le agenzie chiamate – fuori dal nido familiare- ad educare ed istruire l’ individuo su come muoversi nel contesto sociale. In questa dicotomia di compiti, a causa del mancato riconoscimento reciproco, ciascuna agenzia si sente in diritto di puntare il dito e criticare l’operato dell’altra. E gli effetti disastrosi sono sotto gli occhi di tutti.
Accade sempre più spesso che, in nome del diritto di crescere liberi, si utilizzi il valore del rispetto dell’individuo come un alibi a non educare o come una delega perchè lo facciano gli altri, con il rischio che nessuno lo faccia realmente e che il bambino venga lasciato da solo a fare i conti con se stesso e con il mondo.
E’ una società che ha modificato anche l’atteggiamento dell’essere felici. Si sa che i genitori si sono sempre “sacrificati” per i figli , tuttavia oggi sembra addirittura che siano state annullate le loro aspirazioni personali, potendo ambire a realizzare una felicità di forma indiretta, sostitutiva e sub-conditione: “Io sono felice se riesco a farti felice!”. Con l’accrescersi di sacrifici ed aspettative, spesso dimentichiamo che siamo proprio noi genitori a caricare i nostri figli di fardelli talmente faticosi tali da convincerli di non riuscire a realizzare tutto quello che gli altri hanno desiderato per loro.
Preoccuparsi del futuro dei figli senza interessarsi sul serio di quello che desiderano provoca un corto circuito dirompente, la cui causa è data da genitori-apripista che spianano la strada ai diritti ed il cui effetto è rappresentato dai figli costretti a camminare sui sentieri impervi e pericolosi dei doveri, senza le dovute attrezzature.
L’attenzione dell’adulto alla domanda di crescita dovrebbe essere ricondotta alla visione olistica, che riserva, in educazione, il giusto riguardo ai diritti/doveri e l’unica in grado di garantire il conseguimento del bene autentico di sé, dell’altro e del bene comune, da utilizzare come fattore di protezione contro ogni forma di esclusione e di devianza.
Il tempo della nascita di Gesù Bambino, evento che conserva intatto fascino e mistero, è il tempo di ripensare al nostro essere genitori.
I figli sono sempre stati il coronamento dell’unione familiare, il frutto dell’amore di coppia e, per chi ci crede, un dono di Dio.
In Gesù, Bambino speciale, tutti sappiamo riconoscere l’artefice predestinato di un immenso disegno di salvezza. Provando ad immaginare quali siano state le aspettative dei suoi genitori, certamente potremo concludere che le stesse non potevano pesare come macigni come le nostre, perché essi sono stati i realizzatori di un progetto già scritto per loro. E se fossimo anche noi chiamati a realizzare un progetto simile, non sarà un esercizio inutile provare a far tesoro degli insegnamenti, fatti di parole, di silenzi, di crescita, di vita semplice, di intense vibrazioni, di amore infinito, di profonda comprensione, di scelte autonome, di accompagnamento discreto, di gioia consapevole, di tremenda sofferenza che possiamo ritrovare nella vita quotidiana della famiglia di Nazareth. Provare a realizzare le virtù che Maria e Giuseppe tenevano ben custodite nei loro cuori sulla via di Betlemme, mentre si apprestavano a vivere la loro storia straordinaria in una stalla, come inizio della sola storia importante per l’umanità, sarà il nostro regalo di Natale più bello.