Incontri

Mia cara amica, mi hai giocato davvero un brutto scherzo, di quelli che hanno un finale irreparabile. Per me sei stata molto più  che una collega. Tu eri una persona speciale: spandevi sensibilità, buonumore ed energia positiva su chi aveva la fortuna di incontrarti. Ti ho conosciuta in una frazione sperduta di Pontelandolfo, che aveva un nome apparentemente sfigato: Malepara, ma fortunato per noi, visto che ci fatto incontrare. Ci siamo subito piaciute. Poi reincontrate a Ponte io mamma e tu maestra di Luca, mio figlio che adoravi, non perché fosse  figlio mio ma perché l’insegnamento ce l’avevi nel sangue, era un’arte naturale supportata da una voglia straordinaria di apprendere e di sperimentare tecniche sempre più innovative per fornire uguaglianza di opportunità a ciascun piccolo alunno. Il legame di stima si è rafforzato nei quattro anni in cui abbiamo lavorato insieme a Ponte, non nella stessa classe, perché  nella scuola elementare non  era necessario. Si lavorava in gruppo, si discuteva, nelle pause della ricreazione, di problemi comuni, si cercavano consigli su come risolverli, ma il tutto condito allegramente dalle tue battute declamate con cadenza beneventana e dal tuo sorriso che illuminava il tuo volto perfettamente curato, a partire dalla cima dei tuoi capelli tendenzialmente colorati di un  rosso mai volgare, come si addice alla donna di classe che ho ammirato fin da subito. Si, te lo devo dire: un po’ di benevola invidia me la procurava il tuo corpo perfetto, con un abbigliamento elegante e sempre curato, che portavi in giro a scuola senza alcuna superbia. Quattro anni in cui alla scuola abbiamo dato tutto il meglio di cui disponevamo. Recite natalizie di elevata qualità grazie al nostro team di ferro che riusciva a tirare fuori talenti anche da chi pensava di non  averne affatto per queste cose. Le riforme ci fornivano la giusta dose di adrenalina per studiarne le novità e sperimentarle senza timore. Era l’alba della scuola dei progetti: ci siamo messe in gioco perché ci credevamo, visto che allora non si guadagnava nulla in denaro, molto in professionalità. Ci si riuniva non a scuola, ma nelle nostre case, mangiando un boccone in fretta, oppure pasta fredda direttamente dalla pentola, con lo sguardo rivolto alle carte sul tavolo. A scuola avevamo il  permesso di restare solo per le recite. Era tutto un fai-da-te, con pochi mezzi e tanta fantasia. Ma era questa la nostra idea di scuola e ci piaceva cosi. Poi il concorso vinto mi allontanò da te fisicamente, ma un po’ di me ti rimase. Mi chiedesti un regalo: la mia agenda molto artigianale in cui certosinamente avevo raccolto annate di didattica innovativa da una rivista specializzata che usavamo entrambe. Mi dicesti: tanto a te non serve più. Era vero. Te la passai con un piacere enorme, come si passa il testimone a chi continua a correre per te, dopo che hai concluso la tua tappa. Spero tanto ti sia servita, dopo che le nostre strade si sono divise. Hai dovuto abbandonare la gara, mentre eri ancora in corsa. Hai lottato da fiera guerriera  sannita. Fino alla fine. Ma ti sei dovuta arrendere. Così era scritto. Luciano De Crescenzo era solito affermare che gli uomini tendono ad allungare la vita, mentre dovrebbero preoccuparsi solo di allargarla. Tu l’hai fatto con i tuoi interessi mai sopiti, con gli affetti tanto curati. Lasci un vuoto incolmabile, fatto di stima, di rispetto, di amicizia vissuta senza ipocrisie. Resta in noi il ricordo di una persona bella che il Signore ha voluto tutta per sé. Proteggici se puoi e veglia su di noi. Ciao, Maria Antonietta, amica mia!

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